Abusi al Don Uva di Foggia: “Telecamere inutili. I luoghi chiusi generano mostri”. di Giovanna Del Giudice

              Giovanna Del Giudice

“Vattene da qua sennò ti infilo il coltello in la gola“, “ Vuoi vedere che ti spacco la mazza intesta? Vai via, prima che ti uccido! “. Frasi violente che si fanno strette, si accavallano, digrignate e sputate su persone che brancolano nel disordine e da loro cercano solo una carezza, un abbraccio, una cura. Queste sono solo alcune delle minacce raccapriccianti che riempiono l’audio dei filmati registrati dalle telecamere nascoste dalle Forze dell’Ordine nei corridoi e nelle stanze della sezione femminile del Don Uva di Foggia, struttura sanitaria socio-riabilitativa. Qui secondo gli inquirenti 30 dipendenti avrebbero negli ultimi anni quasi ogni giorno violentato e abusato del corpo e dell’anima di 25 pazienti, tra cui19 donne e 6 uomini, tutti ricoverati nel reparto di lungodegenza in condizioni di incapacità e di inferiorità fisica o psichica. Si tratta di intercettazioni ambientali che sarebbero dovute servire per un’altra indagine e invece hanno contaminato l’aria già viziata di un luogo serrato, portando all’apertura del fascicolo “New Life”. Tutto ciò è riuscito se non a confermare, quanto meno a instillare il dubbio che i manicomi, quelle strutture impregnate di morte e la loro insana cultura, non si siano mai estinti. “È un orrore da lager quanto avvenuto all’ Opera Don Uva di Foggia , ma non è purtroppo un fatto isolato: in Italia periodicamente assistiamo a quelli che definisco ‘crimini di pace‘, ovvero quando persone istituzionalizzate, affette da disturbi mentali, persone vecchie o con disabilità, indifese e a basso potere contrattuale vengono violate, torturate, minacciate, umiliate, offese e, come in questo caso, anche violentate sessualmente. Nelle situazioni di istituzionalizzazione non si assiste soltanto a dei drammi, ma alla perdita di umanità degli operatori, persone che dovrebbero accogliere e sostenere individui fragili”.

La dottoressa Giovanna Del Giudice, psichiatra presidente dell’associazione Conferenza Salute Mentale Franco Basaglia, nonché storica collaboratrice proprio di quest’ultimo e coordinatrice della campagna nazionale “ E tu slegalo subito“, ha cercato di esaminare assieme a noi cosa possa nascondersi dietro tali indicibili e inspiegabili episodi di percosse, minacce, ingiurie, sequestri di persona, molestie sessuali che sarebbero stati perpetrati quasi quotidianamente da 30 dipendenti della struttura socio sanitaria- riabilitativa di via Lucera su 25 pazienti psichiatrici e per la maggior parte donne, un dato non irrilevante. Gli indagati, tra cui infermieri, Oss, educatori professionali e ausiliari, ma nessun dirigente ai vertici dell’azienda, sono stati sottoposti a misure cautelari a seguito di indagini avviate nell’estate scorsa dai Carabinieri del Nucleo Investigativo provinciale di Foggia e dai Nas.

“Nei luoghi chiusi nascono i mostri”

Non si tratta di mele marce – ha sottolineato la dottoressa d’origine salentina – , il numero degli operatori indagati è molto alto, come è molto alto il numero dei pazienti con disturbo mentale che sono stati aggrediti, violentati e umiliati. È l’istituzionalizzazione che determina questa perdita di umanità. Noi lo sappiamo bene che nei luoghi chiusi nascono i mostri, dietro i muri si costruiscono i mostri, lo abbiamo imparato già negli anni ’60 e ’70, quando iniziava il movimento di impegno e di lotta contro le istituzioni totali e manicomiali. L’Italia è stato il primo Paese al mondo che, a partire dall’opera e dal pensiero di Franco Basaglia, ha chiuso i manicomi (Legge 180 del 13 maggio 1978, ndr), eppure in molte parti questi rimangono o rinascono sotto mentite spoglie come Residenze Sanitarie Assistenziali (Rsa), Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc), Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) e Comunità Terapeutiche. Al centro c’è sempre la segregazione e l’istituzionalizzazione dei fragili e di chi ci lavora”.

“L’insofferenza e impotenza si trasformano in violenza”

Del Giudice fa fatica a definire in maniera precisa cosa possa scattare o se ci sia qualcosa che si insedia nel personale sanitario in queste situazioni di routinaria e malsana chiusura, ma, a suo dire, “i fatti che vengono raccontati descrivono e indicano la difficoltà di sopportare una condizione di segregazione, di coazione a relazioni sempre con le stesse persone che presentano grandi fragilità, persone che gli operatori considerano incurabili, croniche, senza speranza”. Secondo la dottoressa negli operatori si determina “un meccanismo di insofferenza, di impotenza che si trasforma in violenza dinanzi a questi rapporti coatti, in cui tutto si consuma nella stesso luogo, in cui vi è la ripetizione sempre degli stessi atti, nell’assenza di scambi con la comunità esterna, e aggravato dall’assenza di speranza nella guarigione, nella trasformazione e nel cambiamento”.

“È come se non si riuscisse più a sopportare una situazione dalla quale non c’è uscita, non solo per l’internato, ma per lo stesso operatore – ha affermato la psichiatra -. Ovviamente quando io dico che non c’è più uscita non parlo del mio pensiero, ma del pensiero che si determina in questi dispositivi organizzativi e chiusi. La cronicità, l’immobilità, l’assenza di speranza è fortemente connessa con l’organizzazione di queste istituzioni: istituzioni totali dove manca lo scambio con l’esterno, luoghi chiusi che la comunità non attraversa e in cui non esiste la progettualità e la speranza di uscire. In questo tipo di strutture le capacità anche residue degli internati non vengono riconosciute o a volte vengono distrutte, perché è più facile mettere un pannolone che accompagnare una persona in bagno, è più semplice imboccarla che aspettare il tempo in cui possa mangiare da sola, più comodo metterla su una sedia a rotellelegandola, che accompagnarla a fare una passeggiata per evitare che non perda le sue capacità deambulatorie, dove domina l’ozio e un tempo senza futuro”.

“Quindi sono le condizioni di organizzazione degli istituti chiusi quelle che determinano questa disumanità – ha sottolineato – che fanno scattare questi meccanismi violenti nel personale sanitario. Noi abbiamo visto nello smontaggio del manicomio le persone internate rinascere alla speranza, ad un progetto di cambiamento e di vita e così anche gli operatori ritrovare senso e dignità per sé e le persone in cura. L’aggressività istituzionale degli operatori si è tramutata in capacità di costruire progetti terapeutici e di vita per i pazienti e per loro stessi. Il problema sono i luoghi concentrazionari”.

“Telesforo imprenditore attento che dovrebbe lavorare contro la segregazione”

La presidente della Conferenza Basaglia ci ha tenuto a ripercorrere l’incontro che ha avuto con il dottor Paolo Telesforo, amministratore delegato e vice presidente esecutivo di Universo Salute, l’azienda sanitaria che gestisce proprio la struttura foggiana in cui sono avvenuti gli abusi e altri poli in Puglia e Basilicata. “Ho conosciuto qualche mese fa il dottor Telesforo in occasione di un evento al Don Uva di Bisceglie, dove ero stata invitata dall’associazione Circolo di lettori che gestisce la biblioteca. Sono rimasta molto colpita dalle sue parole lungimiranti e innovative; in quell’occasione ho chiesto e sono stata accompagnata a visitare luoghi della degenza psichiatrica. Ora il Don Uva di Bisceglie, orrendo manicomio attraversato anche dal malaffare, è stato trasformato in un centro polivalente di risposte sanitarie e socio sanitarie. Ho chiesto di essere portata nei reparti dove ci sono persone del residuo psichiatrico e ortofrenico di quella struttura”.

La psichiatra basagliana ha spiegato di aver “visto luoghi puliti, apparentemente molto sereni”, ma ha anche affermato in vari contesti come, nonostante le ottime condizioni di quei reparti chiusi, “non vada mantenuta l’istituzionalizzazione dei pazienti, anche quando si tratta di persone che hanno bisogno di assistenza sulle 24 ore perché è possibile costruire delle comunità piccole assistite nel territorio”. “L’abbiamo fatto – ha continuato -, e allora un imprenditore attento e innovativo come è sembrato il dottor Telesforo deve andare verso questa direzione, a questo deve guardare perché altrimenti rischia di risultare ‘complice di certe atrocità. Voglio spiegarmi bene, ho letto dai giornali che il gruppo ha assolutamente favorito il lavoro dei Nas di disvelamento di questi reati, ma faccio un passo indietro: se questi problemi nascono dalla segregazione bisogna lavorare contro la segregazione, contro l’istituzionalizzazione dei fragili, dei disabili, perché altrimenti si rischia di essere conniventi di questi crimini di pace anche se si lavora perché non succedano. Torniamo ai percorsi di deistituzionalizzazione, sappiamo farlo e dobbiamo farlo”.

“In Puglia molte comunità terapeutiche come luoghi di deposito senza speranza”

Nella nostra lunga e approfondita discussione abbiamo chiesto al medico se i maltrattamenti al Don Uva non siano anche una conseguenza del fenomeno troppo sommerso della contenzione meccanica e farmacologica nei reparti psichiatrici e nelle strutture per anziani. D’altronde, stando agli ultimi dati del 2022 in Italia si contano solo 19 Spdc in cui non si fa uso della contenzione su 320, ovvero sono pochissimi i luoghi di cura in cui si preferisce non legare ai letti i pazienti in stato d’agitazione, in cui si cerca di costruire una relazione d’ascolto con loro per evitare di domarli con le fasce e di tramortirli con dosaggi da cavallo di antipsicotici. Secondo Del Giudice “si tratta di questioni diverse”, perché la deistituzionalizzazione di cui parla questo caso è “quella che ha portato alla chiusura degli 86 ospedali psichiatrici pubblici che avevamo in Italia, alle dimissioni e all’alternativa al manicomio per le 100mila persone internate negli anni ’70”.

“Se poi vogliamo parlare di ciò che sta succedendo adesso nel nostro Paese per quanto riguarda l’area della salute mentale – ha evidenziato – è indubbio che si stia vivendo un grosso processo di arretramento“. Quando la psichiatra parla di istituzionalizzazione si riferisce anche al numero delle residenze. “In Puglia vi è un numero altissimo di comunità terapeutiche che sono spesso solo luoghi di deposito delle persone, in cui queste pure vengono trattate bene, ma sono pur sempre lasciate in luoghi separati senza una riabilitazione nei contesti di vita e dove si arriva perché gli operatori dei servizi (certamente depauperati di risorse anche perché la maggior parte delle risorse vanno alle residenzialità) non si pongono il problema di cosa fare con una persona con problemi di salute mentale, ma si chiedono dove metterla“. “In Italia c’è il ricorso ai mezzi di contenzione negli Spdc – ha asserito -, però noi sappiamo che si può fare diversamente e i percorsi di deistituzionalizzazione hanno mostrato che è possibile lavorare, prendersi in carico e curare pazienti psichiatrici nel rispetto della loro dignità e dei loro diritti, sempre e comunque”.

“Politici miopi, non si risolve nulla con le telecamere ma smontando i luoghi chiusi”

Le abbiamo inoltre chiesto se sia giusto inserire obbligatoriamente le telecamere di videosorveglianza in strutture sanitarie del genere, magari anche nella stanze dei pazienti, come sostenuto sui social da Matteo Salvini, vicepremier, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che ritiene “non siano accettabili ulteriori rinvii nel nome della privacy”. La presidente di Conferenza Basaglia si è dimostrata ben lontana da tale opinione. “Io non mi permetto di dire se è giusto o non è giusto, ma quello che mi fa scandalizzare è che pubblici ufficiali, decisori politici pensino che attraverso le telecamere si possa affrontare e risolvere il problema. Credo siano persone miopi prive di sguardo lungo, che non hanno strategie perché non sanno vedere che il problema non sta nel trovare i colpevoli, ma nel prevenire che le persone commettano reati. Bisogna decostruire, smontare i luoghi della segregazione, i luoghi concentrazionari, chiusi, le istituzioni totali vecchie e nuove dove si generano i mostri. È necessario riprendere la lotta antistituzionale”.

…LEGGI L’INTERVISTA A GIOVANNA DEL GIUDICE

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