Nella giornata mondiale dedicata alla salute mentale la psicologa, figlia dello psichiatra che rivoluzionò parte del sistema sanitario italiano, si rivolge ai giovani e ai cambiamenti che sono ancora capaci di fare.
Intervista di Giada Giorgi (Open)
Nelle sue memorie da bambina Alberta Basaglia ha il forte ricordo della paura dei matti. Quelle persone diverse, «un po’ strane, che parlavano da sole», e che suo papà Franco Basaglia e mamma Franca Ongaro accoglievano, insegnandole con il solo esempio come vivere in un mondo fatto di diversità e contraddizioni. Quella bambina è diventata un’affermata psicologa che agisce al fianco dei giovani e alle donne vittime di violenza, e che oggi, in occasione della giornata mondiale della salute mentale, mette a servizio i ricordi di una rivoluzione che ha visto nascere in casa e la competenza sviluppata in anni e anni di studio.
Dottoressa Basaglia, serve davvero a qualcosa dedicare una giornata alla salute mentale?
«Pochi anni fa le avrei detto di no. Ripenso a quando da adolescente storcevo il naso per quelli che mi sembravano ripetitivi racconti sulla resistenza italiana. Insomma, la storia si conosceva bene e la libertà ormai si era conquistata. Poi ho capito quanto con il passare del tempo sia facile allontanarsi da dei diritti ottenuti con fatica, quanto il rischio di regredire sia dietro l’angolo e quanto ci si dimentichi delle battaglie combattute. La dimenticanza collettiva e culturale di qualcosa che ci ha reso liberi è pericolosa. Il tema della salute mentale è stato chiuso dentro una scatola per troppo tempo, perché i matti dovevano essere nascosti, rinchiusi e tenuti lontano. Se la giornata serve perché non si dimentichi da dove veniamo, allora usiamola».
A proposito di diritti conquistati, ci leggono adulti ma anche tanti giovani. Proviamo a spiegare loro cosa voleva dire entrare in un manicomio negli anni ’60?
«Significava entrare in un lager. Accedere in un posto dove le persone che non corrispondevano a un concetto di normalità, venivano rinchiuse, legate, maltrattate, sottoposte a elettro shock e private di ogni velleità di vita. E pensare che molti di loro non avevano nemmeno alcun sintomo psichiatrico. Alcuni altri sì. Perché la malattia mentale esiste. Ma va curata come tutte le altre malattie. Sicuramente non annientando le esistenze come succedeva a migliaia di persone rinchiuse».
E poi che è successo?
«Che a Gorizia, un gruppo illuminato di medici e di esperti di cui mio papà, lo psichiatra Franco Basaglia, era l’anima, cominciò una lotta che presto si trasformò in una rivoluzione. Il primo passo fu quello di aprire le porte del primo manicomio e di permettere alle persone seviziate e legate ai letti di interfacciarsi tra di loro. Tutto ancora all’interno di una struttura che divenne finalmente libera da sbarre e contenzioni. Le porte poi vennero aperte anche al mondo esterno. Con dei passaggi graduali che condussero i malati mentale alla riacquisizione dei diritti fisici e sociali. Con la legge 180, la legge Basaglia del 1978, i manicomi vennero chiusi con l’obiettivo di garantire ai pazienti un’assistenza territoriale, fatta di centri di cura non isolati dal resto della società e da trattamenti mirati all’intensità della sofferenza di ogni paziente».
Che cosa è rimasto di quella rivoluzione? Penso all’aumento enorme di casi di depressione, suicidi, disturbi alimentari, autolesionismo che durante e dopo l’emergenza da Covid ha colpito le nuove generazioni. Qualcuno li ha chiamati deviati, in troppi casi è stata negata loro un’assistenza dignitosa.
«Parlare di devianze è la dimostrazione di come ancora adesso ci si ostini a non accettare le differenze. La rivoluzione Basaglia ebbe molti ostacoli davanti a sé. Si faceva fatica a comprenderne l’importanza e l’urgenza. Oggi ci ritroviamo a pensare che un ragazzo che si taglia sia posseduto da una deviazione che va combattuta. Un segnale chiaro di quel processo sociale che mette nella scatola dello stigma tutti i comportamenti contraddittori, di quella cultura omologata che non accetta il disagio come parte integrante dell’essere umano».
Nulla è cambiato quindi?
«Molto è cambiato in linea teorica rispetto al diritto di accesso alle cure per la salute mentale e la legge 180 è uno dei pilastri fondamentali. Alcune regioni del nostro Paese hanno seguito la scia della rivoluzione di mio padre, altre purtroppo molto meno, scegliendo di non rispondere alle richieste di sofferenza. Ora il rischio che si corre è quello fare altri passi indietro. E la cosa più pericolosa è non averne coscienza. È necessario prendere atto che il Paese in cui viviamo, inteso come sistema politico e sociale, non ha intenzione di prendersi responsabilità sotto questo punto di vista. Dopodiché dobbiamo anche non accettarlo. Occorre essere molto presenti, vigili e lucidi nella difesa di quello che si è conquistato».
Il benessere mentale è parte integrante dello stato di salute di ogni essere umano. Qualcosa quindi da cui nessuno può sentirsi escluso. Ha davvero senso oggi parlare di “matti”, alimentando anche nel linguaggio uno stigma duro a morire?
«Certo che ha senso, semplicemente perché i matti esistono. Alle cose e alle malattie va dato il loro nome. Basta far finta che non ci siano. Quando le parole non sono figlie di pregiudizio, diventano semplicemente utili per spiegare il mondo. Il vero problema è non aver paura di parlare dei matti. E cioè di non scappare di fronte alle fragilità di nessuno, tantomeno davanti alle proprie. Sta qui la chiave per vincere lo stigma».
Come?
«Ricordo che da bambina avevo molta paura dei pazienti di mio padre. Arrivavano in casa, magari parlavano da soli. Fa parte dei sentimenti umani avere timore del diverso. Quasi subito però ho cominciato ad accorgermi che attorno a me avevo adulti che non mostravano nessuna paura e che anzi erano pronte ad accogliere quelle persone come avrebbero fatto con chiunque. Ho visto prendersi cura di quelle difficoltà, farci i conti. Quando tu cresci in una situazione del genere, impari a vincere la paura nel modo più naturale possibile».
In quanto a esempi è stata una bambina fortunata. Cosa stanno facendo gli adulti di oggi per insegnare le stesse cose alle nuove generazioni, che tra l’altro si ritrovano spesso a vivere in prima persona il disagio mentale?
«Niente. La pandemia ha dimostrato che stare chiusi dentro, isolati con se stessi non aiuta a vivere. Mentre invece lo stare insieme aiuta chi ha delle fragilità. Credo che il problema non stia tanto nella mancanza di servizi, quanto nell’assenza di spazi dove i giovani possano esprimersi, riconoscersi e cercare risposte rispetto al silenzio totale del mondo adulto nei loro confronti. I giovani, i bambini non sono degli ebeti. Sono esseri umani con meno esperienza di vita ma con una capacità di trovare soluzioni alternative che i grandi non hanno. Ci stiamo perdendo questa ricchezza».
È la solitudine quindi il male profondo della nuova generazione?
«Non prettamente la solitudine. Si può essere circondati da tante persone ma non avere mai la possibilità di esprimersi davvero. Quindi più che la solitudine credo sia il non avere spazi dove potersi manifestare. E così lo si fa con esternazioni violente o scomposte, semplicemente perché non si hanno altri strumenti».
Quando a Franco Basaglia chiesero cosa gli interessasse di più tra la malattia e il malato, lui rispose «senza dubbi il malato». Erano le basi della sua rivoluzione. Oggi le lotte sono per il bonus psicologo. È questa l’eredità basagliana?
«La lettura basagliana della salute mentale è quella di un diritto sanitario di cui appunto si occupa la sanità pubblica. È chiaro che un bonus che permette alle persone di garantirsi due o tre visite private da uno psicologo non può rientrare nel modello basagliano di assistenza. Il problema non sono le 200 euro date alle persone ma è l’incentivo alla professione privata che con il servizio pubblico non c’entra nulla. E lo dico da psicologa. Le persone che avvertono il bisogno di doversi rivolgere a qualcuno per la propria salute mentale devono pretendere che ciò esista nei servizi pubblici. Il punto allora diventa quello di avere figure con una formazione adatta nei servizi pubblici e che si mettano a disposizione di tutti i cittadini in maniera accessibile e semplice».
Stessa opinione sullo psicologo scolastico o di base?
«Dovunque venga data possibilità di accedere a servizi pubblici e accessibili esiste il vero diritto alla salute e alla salute mentale. Quindi ben vengano. Il mio unico timore rispetto a queste figure è quello di mettere un altro mattoncino solo per evitare di affrontare il tema da un punto di vista strutturale e chiuderlo dentro a una risposta tecnica».
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato un piano europeo condiviso per la salute mentale. Paesi come Danimarca e Austria sono riusciti a improntare nuovi modelli di assistenza per una richiesta triplicata. L’Italia dove si sta dirigendo?
«Non sono ottimista sulla direzione che il nostro Paese prenderà. Il punto è cominciare a dare delle risposte alla sofferenza psichica delle persone. Non si sta andando in questo direzione già da tempo e non sono fiduciosa che questo possa accadere nel periodo prossimo. È un discorso che prima di coinvolgere la salute mentale, colpisce la sanità nel nostro Paese, sempre più parcellizzata e incapace di dare risposte inclusive».
Una nuova rivoluzione allora anche in campo sanitario, che magari parta proprio dai giovani, è possibile?
«È possibile se difenderanno la consapevolezza di essere singoli legati a una collettività. Dopodiché sarà fondamentale che comunichino, anche nel virtuale, cose reali. Che insegnino agli adulti la libertà di esprimere se stessi senza maschere e senza stereotipi, che oggi costringono a rinchiudersi in gabbie dannosissime per il cervello. Non siamo sempre tutti bravi e capaci. Per riuscire a mantenere forti i diritti acquisiti e di averne di nuovi, credo che serva il coraggio di mostrarsi fragili. Chi è attorno si riconoscerà in noi senza avere più il bisogno di esporsi a tutti i costi come persone belle, brave e tragicamente false».
C’è qualcos’altro che in questa giornata sarebbe utile poter dire?
«Condivido l’esperienza di uno dei bambini con cui ho avuto a che fare da psicologa. Ho parlato spesso con lui della paura del diverso. Fino a che mi ha raccontato di “quell’uomo brutto” sdraiato per terra fuori dal supermercato che gli ha sempre fatto tantissima paura. All’uscita e all’entrata faceva dei giri larghissimi per evitarlo e non passargli troppo accanto. Poi mi ha raccontato di come un giorno abbia cominciato a guardarlo. E di come anche “quell’uomo brutto” abbia ricambiato lo sguardo. Successivamente la distanza di quei giri si è accorciata e a quel punto la scelta coraggiosa del bambino è stata quella di dirgli un “ciao”. A quel saluto anche “l’uomo brutto” ha risposto. “Ora non ho paura di passargli davanti”, mi ha detto. “Anzi quando vado al supermercato con mia mamma passo a salutarlo”. Questo è l’esempio di come dalla paura non serva scappare fin da piccoli e di come la vittoria sui timori possa aprire infinite possibilità di crescita».
fonte: Open