Gentile sottosegretario Andrea Delmastro, riferiscono alcune agenzie di visite nelle carceri da parte sua e di altri esponenti del governo, in queste giornate difficili e torride. Iniziativa opportuna e da apprezzare perché quei luoghi hanno attualmente necessità di percepire la vicinanza di chi ha il compito istituzionale di garantire che la vita all’interno sia corrispondente, nella quotidianità e nella finalità del tempo che in essi si consuma, a quanto la civiltà del nostro Paese richiede e la nostra Carta prescrive. Un segno di vicinanza ha il valore dell’appartenenza al corpo sociale e del non abbandono in un mondo da esso separato.
Ma visitare non può soltanto andare a vedere ciò che, in fondo, già si conosce, date le molte testimonianze di chi il carcere frequenta per vari motivi, incluso quello di avere là dentro i propri affetti o ancor più di avere in quella densità di corpi e tensioni il proprio luogo di lavoro. Abbiamo tutti nella mente le parole di Pietro Calamandrei sulla necessità di andare a vedere la realtà carceraria. Vale la pena ricordare che all’allora ministro Giuseppe Grassi, che superficialmente parlava del “fare insieme una passeggiata nelle carceri”, egli obiettò che andare a vedere significava anche prendere atto di un’esperienza di dolore e di dimostrare di averne consapevolezza. Per questo, il primo significato che una visita istituzionale deve avere è quello della consapevolezza del dolore: certamente causato anche e soprattutto da ciò che si è commesso, ma che nulla toglie al fatto che è compito di chi amministra gli esiti del rendere giustizia impegnarsi affinché la pena resti nel solco della sua finalità, sempre rivolta a un positivo futuro.
Purtroppo, da tempo questo messaggio non viene inviato: al contrario, sembra quasi che l’esecuzione di una sanzione penale non sia circoscritta alla privazione della libertà personale, ma sempre più comporti ulteriori aggravi che rischiano di aggredire beni inviolabili di ogni persona. Il molto citato comma dell’articolo 27 della Costituzione che definisce la finalità rieducativa come connotazione tendenziale delle pene, ha nella sua prima parte l’affermazione assoluta che comunque queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Su questo aspetto, che un ordinamento civile dovrebbe considerare quasi implicito nel proprio realizzarsi, stiamo ormai al di là della soglia. E non è accettabile, per quella tradizione che ci deve accomunare indipendentemente dalle diverse posizioni ideologiche e politiche, che debbano essere organismi di controllo sovranazionali a imporci di prendere misure, senza avere noi la capacità autonoma di riportarci entro il confine che tale norma indica.
Per questo, la visita deve inviare il messaggio concreto del saper cogliere dal dolore visto l’indicazione per agire: sul presente e sul medio periodo. Sul presente, accelerando l’iter di proposte che riducano l’attuale affollamento: facile partire nell’immediato con ampliare il numero dei giorni di liberazione anticipata, anche con un valore retroattivo definibile, nei confronti di coloro che sono già stati dichiarati dalla magistratura come meritevoli di tale misura.
Altrettanto impellente è dare indicazione di una maggiore possibilità di contatti con i propri affetti – più telefonate, come promesso all’inizio della scorsa estate e mai attuato, più videochiamate – così come ampliare le possibilità di accesso all’aperto, certamente in condizioni di sicurezza e in orari congrui con le esigenze climatiche. Così costruendo un primo messaggio di concreta effettività della consapevolezza, costruita con tali visite, delle difficoltà e del dolore.
Nel medio periodo occorre abbandonare la logica della continua trasformazione di illeciti disciplinari detentivi in nuovi reati: misura inefficace come lo è stata l’introduzione del reato di possesso di telefonini in carcere che certamente non ne ha ridotto la presenza, ma che ha allungato molte carcerazioni. O come, io temo, sarà la piena attuazione di quanto recentemente approvato circa la resistenza agli ordini impartiti.
Non sfugge tuttavia a chi osserva il sistema – e certamente anche a lei – che la popolazione detenuta vada sempre più caratterizzandosi per la sua marginalità sociale e che per attuare una qualsiasi politica in questo settore, inclusa quella su cui probabilmente siamo su posizioni diverse, occorra una drastica riduzione dell’impatto di tali situazioni e che, laicamente, dovremmo ragionare su quelle misure di clemenza che la nostra Carta prevede e che ormai sembrano essere una prospettiva abbandonata. Mi auguro che nelle visite, lei possa essere portatore di un segnale di presenza, consapevolezza e impegno di fronte all’impellenza della domanda che la situazione attuale impone.
fonte: La Stampa su Ristretti Orizzonti
